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(it) Italy, FAI, Umanita Nova #18-25 - Ci vogliamo viv3. Mettere fine al dominio sui corpi (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]
Date
Wed, 23 Jul 2025 07:59:27 +0300
Martina Carbonaro aveva quattordici anni, è stata uccisa a pietrate da
quello che i media hanno continuato a chiamare il fidanzato, ostinandosi
a rimarcare proprio quel legame che Martina aveva voluto spezzare. Il
ragazzo poco più grande di lei che l'ha ammazzata, ricoperta di
spazzatura e gettata sotto un armadio quando ancora era agonizzante, era
solo uno che pretendeva di essere padrone di un corpo e di una vita.
---- Nello stesso giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Martina,
una donna di 61 anni è stata ammazzata dal marito, a Grugliasco, vicino
a Torino. Si chiamava Fernanda Di Nuzzo e faceva la maestra in un asilo
nido comunale. Di lei si è parlato pochissimo, è stata nominata solo in
un breve passaggio di cronaca, il suo nome non ci risuona nella testa e
nelle orecchie come quello di Martina, è una delle tante, quelle che
sembrano non meritare minuti di silenzio, striscioni, puntate di talk
show. Nei giorni successivi altre donne sono state uccise. Sarebbe
grottescamente fuori luogo la polemica su un primato così atroce, ma una
riflessione invece va fatta, perché la narrazione gerarchica dei
femminicidi messa in atto dai media è insopportabile, come se alcune
vite contassero di più ed altre di meno.
Quando ad essere uccisa è la ragazza perbene, la studentessa modello,
oppure la madre irreprensibile, il caso ha una risonanza enorme. Se si
tratta di una ragazzina un po' sbandata, di una lesbica, di una donna
libera nelle sue relazioni, o addirittura di una sex worker, c'è una
risonanza di segno opposto, intrisa di disapprovazione, quasi che il
femminicidio fosse un inconveniente da mettere in conto. Se si tratta
poi delle tante, tantissime, che non rientrano in queste "categorie",
l'interesse non si attiva nemmeno, il loro nome viene fatto una volta
appena e presto dimenticato.
Il criterio narrativo mediatico è quello della spettacolarizzazione, che
concede più visibilità ad alcuni casi rispetto ad altri, favorendo in
qualche modo la percezione ordinaria e normalizzata, ad esempio, dei
femminicidi in contesto familiare "ordinario", che rappresentano la
maggioranza dei casi.
Da qualche anno è stato attivato l'Osservatorio contro femminicidi
lesbicidi e transcidi (FLT) di NonUnaDiMeno, uno strumento molto
importante, gestito da un gruppo di lavoro che sta svolgendo il
censimento delle morti in maniera indipendente e secondo criteri diversi
da quelli ufficiali. I dati vengono aggiornati ogni 8 del mese e il
conteggio non risulta allineato con quello fornito da Istat e Ministero
dell'Interno. Dai censimenti ufficiali mancano spesso, ad esempio, dati
relativi a sex workers, frequentemente inquadrati come morti sul lavoro,
o a persone omosessuali, trans o intersex, ascritti spesso alla cronaca
nera e irrispettosamente identificati con i nomi anagrafici che non ne
rappresentano la storia e i percorsi. Quello attuato dall'Osservatorio
non è solo un diverso criterio di calcolo, che include tutte le morti
indotte da violenza di genere ed eterocispatriarcale (femminicidi,
lesbicidi, transcidi, suicidi indotti e, in apposite sezioni, tentativi
di assassinio e casi ancora in corso di accertamento). Il lavoro
dell'Osservatorio esprime innanzitutto la volontà di occupare uno spazio
e un ruolo nella misurazione di un fenomeno, uscendo dal commento
sull'evento individuale e sul caso singolo per affrontare una questione
che ha evidenti caratteristiche sistemiche. La raccolta dei dati è
affiancata da una messa in discussione della narrazione mediatica
frequentemente basata su una romanticizzazione dei fatti e sulla
vittimizzazione dell'assassino, dalla rottura dello schema di censimento
rigorosamente impostato sul binarismo di genere, dal rifiuto del
criterio spettacolare che concede più visibilità ad alcuni femminicidi
rispetto ad altri. Sicuramente la rilevazione operata dall'Osservatorio
FLT non segue i criteri gerarchici che condizionano le cronache e le
narrazioni ufficiali.
Tuttavia, di Martina Carbonaro si è sicuramente parlato molto, per
l'inevitabile coinvolgimento emotivo dovuto alla giovanissima età, ma
non solo. Il caso di Martina fa anche comodo a chi vuole orientare i
riflettori esclusivamente sui giovani, su quella che viene definita una
loro incapacità di gestire le emozioni, le relazioni, l'affettività, la
sessualità. Come se la violenza riguardasse solo loro. Tra gli autori
dei quarantotto femminicidi avvenuti dall'inizio del 2025 al momento in
cui scriviamo, abbiamo solo un 22enne e un 23enne, gli altri sono più
grandi. I femminicidi avvengono prevalentemente nell'ambiente domestico,
nella relazione di convivenza che riguarda una ben precisa fascia d'età,
statisticamente identificata attorno alla cinquantina, in quel contesto
violento che è la famiglia patriarcale. C'è poi l'inquietante fenomeno
dell'aumento di uccisioni di donne anziane da parte di figli o mariti
evidentemente incapaci di assumere un ruolo di cura ritenuto naturale
per una donna ma non per un uomo. È chiaro che la violenza di genere non
è un fenomeno giovanile. Nessuno nega l'evidenza di una cronaca che
mostra aggressioni, risse, regolamenti di conti etc, in cui spesso i
giovani, soprattutto nei luoghi di socialità, sono coinvolti. Ma non si
tratta solo di giovani. E non si tratta solo di brutalità individuale.
Senza nulla togliere alla responsabilità individuale, guardiamoci
attorno e cerchiamo di capire cosa è che ci nutre, che ci viene
trasmesso. Tutto intorno a noi è violenza, dominio, sopraffazione, sia
nella dimensione della realtà concreta che in quella culturale. Dalle
guerre, alle politiche aggressive esercitate da svariati governi,
all'aggressività dei linguaggi e degli stili utilizzati nell'ordinaria
comunicazione anche istituzionale, alla brutalità della repressione e
dell'esclusione sociale: viviamo immersi in una generale cultura della
violenza e in una specifica cultura dello stupro, ma questo sembra non
essere rilevante, il problema pare essere solo dei giovani.
È una soluzione comoda, la società patriarcale e sessista generatrice di
violenza non viene messa in discussione. E la risposta, come sempre, è
quella securitaria.
È stato recentemente presentato un disegno di legge che inasprisce le
pene per gli autori di femminicidi introducendo l'ergastolo in modo
generalizzato. Un provvedimento che farebbe seguito ad altri proliferati
negli ultimi anni e dimostratisi privi di efficacia. Basti pensare al
Codice rosso varato del 2019, poi rafforzato nel 2023: un inasprimento
di pene in un quadro comunque vessatorio della vittima, che deve essere
ascoltata entro tre giorni dai fatti denunciati. Per non parlare delle
varie iniziative sanzionatorie attuate (l'inutile braccialetto
elettronico) o vagheggiate (la castrazione chimica). Tutto questo mentre
si tagliavano risorse per i centri antiviolenza o si dirottavano verso
enti preposti alla rieducazione di uomini maltrattanti che in questo
modo ottenevano sconti di pena e accesso alla condizionale. Ora il
disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 7 marzo
- data non casuale ai fini propagandistici - introduce l'ergastolo per i
femminicidi, di fatto riproponendo quanto già disposto dagli ordinamenti
vigenti per gli omicidi, con un provvedimento quindi inutile. Una
iniziativa criticata anche da molt* giurist* per il fatto che la pena
fissa dell'ergastolo non permetterebbe di considerare le circostanze
attenuanti o aggravanti e sarebbe quindi contraria ai principi stessi
del diritto penale. Da più parti quindi viene rilevato l'intento
esclusivamente "populista" e simbolico di questo provvedimento e la
mancanza di iniziative di carattere preventivo.
Tuttavia la prevenzione attorno alla quale ragiona l'opposizione
politica istituzionale, nonché quei settori che occasionalmente si
autoproclamano "società civile", ma anche ampi e variegati strati di
movimento, ci riporta sempre lì: la scuola, i giovani. Un'educazione
affettiva e sessuo affettiva che educhi alla cultura del consenso e del
rispetto fino dai primi anni di scuola. Senz'altro è una buona cosa, ma
siamo sicure che questo sia risolutivo per abbattere la cultura
patriarcale e sessista generatrice di violenza? E ancora prima, siamo
sicure che sia possibile?
Valditara è il ministro che ha negato l'esistenza del patriarcato,
ritenendolo un'ubbia ideologica delle femministe; è quello che ha messo
in diretta relazione le violenze sessuali con "l'immigrazione illegale"
quando il 94% dei femminicidi è commesso da italiani. Valditara è il
ministro che con la risoluzione Sasso ha bloccato progetti di educazione
alle differenze e addirittura contro la violenza di genere ritenendoli
veicoli della pericolosa ideologia gender; è quello che ha definito la
violenza di genere una "triste patologia", un germe isolato che coglie
disgraziatamente e casualmente qualcuno. Riteniamo possibile andare in
una direzione di rottura per disposizione ministeriale? E quando
Valditara se ne andrà e magari anche l'attuale governo farà altrettanto,
siamo sicure che il superamento del patriarcato avverrà per eventuale
revisione dei programmi ministeriali di qualche governo più
"progressista" in una struttura gerarchica come quella scolastica? E a
chi sarà affidata questa educazione? Essere una figura docente non
significa non essere sessista, non avere una cultura patriarcale, non
essere omofobo, non essere misogino. Altre figure? Formate da chi? Ma
soprattutto: è credibile che una società patriarcale e sessista voglia
rinunciare ad esserlo o voglia anche semplicemente modificare un pezzo
importante come quello della scuola, in cui viene riprodotto
quell'impianto culturale che le consente di perpetuarsi?
Di una cosa siamo sicure: quando le cose cambiano, e si è visto che i
cambiamenti sono possibili, è perché il fermento sociale è potente,
perché la spinta verso la libertà ha una forza, una capacità di
elaborazione e di produzione di esperienze che riesce a sovvertire
l'esistente mettendo nell'angolo le istituzioni, costrette in qualche
modo, loro malgrado, a recepire il cambiamento.
Dobbiamo sfruttare in pieno questo potenziale, collegarci alle lotte
rivolte, negli obiettivi e nei metodi, ad una radicale trasformazione,
alimentarle, liberarci dalle scorie e dalle incrostazioni che agiscono
anche su di noi, soprattutto quando siamo sul terreno scivoloso delle
relazioni interpersonali. Dobbiamo mettere fine al dominio sui corpi,
liberarci davvero dalla violenza.
P.C.
https://umanitanova.org/ci-vogliamo-viv3-mettere-fine-al-dominio-sui-corpi/
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