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(it) Italy, Federazione Anarchica Torinese: Tramandare il fuoco: Per un approccio libertario alla questione palestinese. Una critica a essenzialismo e nazionalismo II. (2/4) (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]
Date
Tue, 1 Oct 2024 08:28:35 +0300
Il nazionalismo palestinese ed il regno di Giordania[3] ---- Nel
Mediterraneo Orientale la politica della Gran Bretagna, che spinse
sull'accelleratore dei nazionalismi arabi ed ebraici durante la prima
guerra mondiale - da Lawrence d'Arabia alla dichiarazione Balfour -
divenne un boomerang per il dominio inglese, che si trovò a fare i conti
con diversi opposti nazionalismi, che in comune avevano solo il
desiderio di liberarsi dal giogo coloniale ---- Quanto è avvenuto dopo
il maggio 1948, quando i britannici lasciarono i territori occupati in
quelli che divennero i confini dello Stato di Israele sino al 1967, è la
diretta conseguenza dell'affermarsi di istanze nazionaliste contrapposte.
Dopo la guerra civile del 1948 buona parte dei palestinesi che vivevano
nei territori controllati da Israele fu obbligata a prendere la strada
dell'esilio. Quelli che rimasero, circa il 20%, divennero cittadini di
serie B dello Stato ebraico.
La Cisgiordania e la Transgiordania, dove oggi come allora la
popolazione era in prevalenza palestinese, vennero annesse al regno
hashemita di Giordania. La Striscia di Gaza finì sotto il controllo
egiziano.
Circa vent'anni dopo, era il 1967, la coalizione araba (Siria, Egitto,
Giordania, Iraq), venne sconfitta nella guerra dei Sei Giorni ed Israele
occupò la Cisgiordania, le alture del Golan in Siria, la penisola del
Sinai e la Striscia di Gaza.
Tre anni dopo in Giordania ci fu una sanguinosa guerra civile tra le
organizzazioni armate palestinesi e l'esercito giordano, che si concluse
nel luglio del 1971 con l'espulsione delle organizzazioni
politico-militari palestinesi.
Oggi circa il 70% della popolazione giordana è di origine palestinese:
in parte palestinesi che vivevano in Transgiordania dopo la fine del
mandato inglese e la nascita del regno di Giordania nel 1946, in parte
profughi del 1948 e della guerra dei Sei Giorni.
Nel 2014, quando la guerra civile in Siria obbligò alla fuga i
palestinesi incalzati dall'ISIS, la Giordania, che pure accolse migliaia
di siriani arabi e non, chiuse le porte a chi fuggiva dal campo profughi
palestinese di Yarmuk, arrivando a sparare a quelli che riuscivano
comunque a passare la frontiera.
Non solo. Il regno di Giordania nega la nazionalità ai palestinesi che
la richiedono e, in alcuni casi, la toglie a chi l'ha acquisita.
Eppure.
Le politiche del regno di Giordania nei confronti dei palestinesi
sottoposti alla propria giurisdizione sono state e continuano ad essere
includenti verso chi riconosce la legittimità dello Stato hashemita, ed
escludenti verso i nazionalisti palestinesi.
È un elemento che a nostro avviso necessita di una riflessione attenta:
perché il ruolo di una dinastia che proviene dalla penisola arabica, con
significative collusioni storiche con il colonialismo britannico è stato
ed è tanto sottovalutato dai movimenti che appoggiano il nazionalismo
palestinese?
Un'ipotesi a nostro avviso congrua è il mancato riconoscimento della
natura coloniale del Regno di Giordania, l'unico pezzo di territorio
rimasto nelle mani della dinastia hashemita, dopo il risarcimento che le
venne offerto per l'appoggio agli inglesi durante la prima guerra mondiale.
Un approccio distorto alla decolonialità
Il concetto di decolonialità è uscito da tempo dagli spazi accademici
per deflagrare all'interno della riflessione e della prassi dei
movimenti di emancipazione politica e sociale più radicali. Purtroppo
spesso ne è stata ignorata la carica sovversiva finendo con lo scivolare
in dinamiche paradossalmente essenzialiste4
Nei movimenti di appoggio al nazionalismo palestinese questa dinamica è
sin troppo evidente. La nozione di popolo ne è il cardine. Assumerla
all'interno di una prospettiva che si pretende decoloniale è una
incredibile aporia, poiché ogni concetto costitutivamente escludente è
estraneo a quest'approccio. Non esiste "un" punto di vista dei
colonizzati, ma tanti diversi punti di vista e diversi posizionamenti
spesso divergenti, che non possono essere inscatolati nel concetto di
popolo.
Riconoscere l'importanza che la liberazione scaturisca dalla volontà dei
soggetti direttamente coinvolti non comporta un'adesione "automatica" ed
acritica a qualunque iniziativa di soggettività investite storicamente e
culturalmente dall'oppressione coloniale.
Parimenti l'assunzione su di sé di una colpa collettiva, effetto
dell'essere nati e di vivere in ambiti statuali che hanno attuato feroci
politiche coloniali e post coloniali, è una dinamica speculare gravida
di pessime conseguenze. Chi la attua nega la libertà di critica di
qualunque approccio o iniziativa provenga da soggettività colonizzate (o
razzializzate o escluse per ragioni di genere ed identità).
Non siamo colonialist* perché l'Italia ha fatto guerre per conquistare e
sfruttare la Cirenaica, la Tripolitania, la Somalia, l'Eritrea,
l'Etiopia, la Slovenia, la Croazia, l'Albania, il Dodecaneso... ed oggi
perpetua la propria azione in missioni militari all'estero per difendere
gli interessi delle industrie armiere ed energetiche.
Non siamo colonialist* perché il governo del paese dove viviamo è
colonialista.
La memoria nel suo informare di sé il nostro presente è un meccanismo
complesso e variabile. Abbiamo tutti a disposizione una cassetta degli
attrezzi culturale cui attingiamo per comprendere e cercare di
modificare il mondo intollerabile in cui siamo forzati e vivere.
Nella cassetta, che ovviamente non è per tutt* la stessa, ci sono tante
memorie, che arrivano da fonti diverse. Alcune restano sepolte per
decenni ma poi riemergono. Altre ancora si sono dissolte, perché nessuno
le ha fatte proprie mantenendole vive. Vi sono casi in cui non c'è
memoria perché non ci sono più quelli che l'avrebbero potuta tramandare.
In ognuno di questi dispositivi c'è di tutto: spetta a noi scegliere. La
nostra è anche, sempre, una scelta di campo.
Nel nostro campo c'è Augusto Masetti, che nel 1911 manifestò il suo
rifiuto a partire per la conquista della Libia, sparando al suo
colonnello ed affrontandone le conseguenze. Ci sono i disertori e gli
ammutinati della Grande Guerra di espansione coloniale ad est. Ci sono
quelli che partirono per combattere a sostegno della rivoluzione
anarchica contro fascisti, nazionalisti e clericali in Spagna. Ci sono
quelli che rifiutarono di fare i soldati e finirono nelle carceri
militari della Repubblica Italiana. Ci sono le donne e uomini che si
sono opposti e continuano ad opporsi all'oppressione di classe, alle
cesure identitarie, alle guerre, alla negazione dei percorsi di
autonomia delle donne e delle identità non conformi.
L'approccio decoloniale ci offre l'opportunità di chiudere la parabola
degli universali escludenti per approdare ad un universale plurale che
si esperisca nella molteplicità dei percorsi, delle relazioni, delle
possibilità che la pratica della libertà nell'uguaglianza e nella
solidarietà aprono a tutt*, in ogni dove.5
Purtroppo oggi alla prospettiva decoloniale "Manca un'elaborazione di
questa idea che la separi da nazionalismi, comunitarismi e approcci
basati su una prospettiva unica (piuttosto che su intersezioni) che
rischiano di farla diventare una concezione escludente quando non lo è.
Come elaborata originariamente dal collettivo
Modernità-Colonialità-Decolonialità (MCD) e poi arricchita dai
contributi del femminismo indigeno, dagli studi sul pluriverso e dalle
epistemologie del Sud per non citare che alcuni dei principali ambiti di
discussione, la decolonialità6 mira a superare i limiti di precedenti
approcci.
Si tratta in particolare del culturalismo dei Postcolonial Studies, che
si sono spesso limitati a critiche della colonialità che restavano
limitate a un'analisi del discorso e confinate in ambiti accademici, e
dell'economicismo di teorie quali lo sviluppo ineguale o il sistema
mondo, incapaci di includere quello che gli approcci decoloniali
chiamano la "decolonizzazione epistemica". In questo senso, i punti
qualificanti della decolonialità sono la necessità di non limitarsi alla
pura teoria per connettersi a lotte e situazioni reali, di riscoprire
modi di pensare al di fuori delle tradizioni intellettuali europee e di
costruire ponti di solidarietà militanti attraverso diverse culture e
assi di intervento."7
Ponti di solidarietà. Questo è il nocciolo della questione. Costruire
legami, intersezioni, percorsi comuni, cercando di comprendere ed essere
compresi offre ai movimenti di emancipazione sociale l'occasione
preziosa di allargare il proprio orizzonte interpretativo e di lotta.
La memoria è un ingranaggio collettivo che deve essere curato ed
alimentato costantemente.
Lo sguardo classista e internazionalista
Dal nostro itinerario politico e culturale traiamo gli strumenti per
frantumare la nozione di popolo, prendendo le mosse anche dalla cesura
di classe. Nel Diciannovesimo secolo dal rifiuto della servitù
salariata, dalla consapevolezza che la piramide sociale era frutto di
una relazione sociale basata sul diritto alla proprietà privata, sul
lavoro come merce negoziabile a poco prezzo, scaturirono lotte che
portarono ad un'alleanza transnazionale degli oppressi e degli
sfruttati, la Prima Internazionale. Il terreno della lotta di classe
contribuì ad indebolire l'idea, costitutivamente interclassista, di
popolo. La consapevolezza che sfruttati e sfruttatori erano gli stessi
al di là di ogni confine nazionale, rese possibile la costruzione di
ponti solidali tra i lavoratori e lavoratrici di ogni paese. Con la
rottura della Prima Internazionale e la nascita dell'Internazionale
antiautoritaria a Saint Imier nel 1872 la lotta contro lo sfruttamento
capitalista si saldò con quella contro l'oppressione statuale.
In ambiti coloniali o post coloniali i colonizzati diventano forza
lavoro a poco prezzo. A lungo i palestinesi sono stati lavoratori a buon
mercato in vari settori dell'economia israeliana. Oggi sono stati in
parte sostituiti da immigrati con la cittadinanza ebraica provenienti
dalla Russia. La cesura di classe esiste anche a Gaza, in Cisgiordania e
in Israele. Creare relazioni solidali tra lavoratori e lavoratrici,
precari e disoccupati che vivono una comune condizione di sfruttamento è
un modo concreto e simbolicamente potente di far saltare la legittimità
di qualsiasi entità nazionale.
Eppure.
Tanta parte dei movimenti continua a considerare prioritaria la
questione nazionale, come se la lotta di classe avesse bisogno di uno
Stato-nazione nuovo di zecca. Certa "sinistra" si è ancorata a
quest'opzione sin dai tempi della divisione del mondo in blocchi.
Eppure.
Di fronte al lento precipitare verso la colonizzazione e la
trasformazione della Cisgiordania in un insieme di bantustan scollegati
gli uni dagli altri servirebbero saldi ponti tra sfruttati che sappiano
supportare l'abbattimento di muri, barriere, confini. Fuori da una
logica nazionalista potrebbe emergere lo spazio per alleanze che
estirpino alle radici il conflitto che da 76 anni insanguina il
Mediterraneo Orientale.
Per fermare il tremendo massacro in atto nella Striscia servirebbe
un'insurrezione generalizzata in Israele, in Cisgiordania e a Gaza.
Un'insurrezione contro i propri governi, i propri governanti, le proprie
istituzioni religiose. Difficile? Sicuramente. Ma certo anche l'unica
possibilità per centinaia di migliaia di uomini, donne, bambine e bambini.
L'antimilitarismo, le università e la questione palestinese
I movimenti che si sono sviluppati nelle università hanno il merito di
aver colto il nesso fondamentale tra ricerca accademica ed industria
bellica, in un intrecciarsi di interessi che pongono al centro la logica
del dominio e quella del profitto, fuori e contro ogni supposta
neutralità di un'indagine scientifica che si muove seguendo gli
indirizzi dei committenti di turno. Hanno tuttavia un forte limite sia
nella definizione degli obiettivi che nelle modalità nel perseguirli.
L'enorme emozione che accompagna i massacri con finalità genocide della
popolazione gazawi, finisce con il porre in primo piano solo la critica
e il boicottaggio verso lo Stato di Israele, dimenticando che il nostro
paese (e le sue università) sono in prima fila in numerosi teatri di
guerra, che restano sullo sfondo, avvolti in un oblio pericoloso, che
rischia di renderci complici di infiniti orrori.
Qualcuno potrebbe obiettare che la tragedia che si consuma a Gaza è
prioritaria, dimenticando che in questi stessi mesi nelle guerre
dimenticate di mezzo mondo vengono perpetrati massacri orrendi. Pensiamo
al Sudan, al Congo, all'Eritrea, alle regioni curdofone nel nord dell'Iraq.
Ci limitiamo per brevità al Sudan.
Nei due anni precedenti lo scoppio della guerra civile che ha ridotto in
macerie il Sudan, ucciso o obbligato a lasciare le proprie case
centinaia di migliaia di persone, l'Italia ha fornito armi alle RSF, le
Rapid Support Force di Dagalo, ex comandante degli Janjaweed, i "diavoli
a cavallo". In questa guerra Dagalo e i suoi sono tornati al loro sport
preferito, quello per cui erano noti da decenni, ossia bruciare i
villaggi, stuprare le donne, uccidere gli uomini e arruolare i bambini.
L'Italia contava su Dagalo per bloccare le partenze di migranti da
quell'area. Dagalo ricambia il sostegno da par suo, nel silenzio dei
media e, purtroppo, di tanta parte dei movimenti.
Purtroppo nelle acampade studentesche l'emergere di un'attitudine
antimilitarista non si è saldata con una significativa critica ai
nazionalismi, pur presente nelle componenti studentesche che sostengono
l'esperienza di sottrazione alle dinamiche dello Stato-nazione in Rojava.
Se la lotta contro tutte le guerre, e, in particolare, quelle dove il
nostro paese ha un ruolo diretto, riuscisse a concretarsi in lotta agli
accordi tra l'industria armiera e le università, investendo tutte le
intese di cooperazione bellica e non solo quelle con Israele, i
movimenti nati in questa primavera avrebbero la postura necessaria a
gettare sabbia negli ingranaggi ben oliati delle scuole e università
colluse con la guerra. Compresa quella ai poveri che si combatte per le
strade delle nostre città.
Una critica radicale oltre a denunciare e combattere il sempre più
stretto rapporto tra Università e ricerca bellica si interroga sul ruolo
delle Università e sulla necessità di espropriazione permanente di
ambiti di studio e ricerca al servizio dell'imperialismo e della logica
capitalista.
I sommersi e i salvati
Nei lager nazisti sopravvivevano qualche mese in più solo quelli che si
rendevano utili in qualche modo al funzionamento della città-fabbrica
della morte. Chi ne diveniva complice, degradando l'ultimo granello di
dignità che gli veniva lasciato, aveva una chance di farcela. Ma il
prezzo era enorme.
L'orrore concentrazionario nazista, come i gulag staliniani, non
rappresentano un'anomalia, una crepa nell'ordine del mondo, ma una
possibilità sempre aperta.
Gaza oggi è una sorta di lager a cielo aperto: chi non viene sventrato
dalle bombe e dai missili israeliani sopravvive solo se riesce ad avere
qualche razione in più per non soccombere alla fame. Una chance che
viene offerta soprattutto a chi è vicino al regime. Chi ha denaro e
relazioni paga e fugge.
0Noi che viviamo lontano dalle bombe e dai ricatti di una trappola senza
uscita dobbiamo avere la lucidità e la forza per contribuire ad aprire
le porte di Gaza e frantumarne le mura, perché ci sia vita, dignità,
libertà per tutt*.
Ma serve uno sguardo dritto.
Le persone massacrate dalle milizie di Hamas il 7 ottobre pesano tanto
quanto quelle dei feroci attacchi israeliani a Gaza.
Il governo israeliano non si fermerà se chi vive in quel paese non lo
caccerà via. Il governo di Gaza non si fermerà finché i gazawi non se ne
libereranno.
Alle nostre latitudini c'è chi evoca i fantasmi del sionismo globale che
ci burattina tutti. Altrettanto insidiose sono le destre sioniste che
considerano tutti i gazawi parte della jihad mondiale.
Nessuno può essere marchiato per una colpa collettiva.
In questo mare di merda razzista, a sparire, vittime due volte, sono
proprio uomini, donne, bambine e bambini di Gaza. Destinati al martirio
e, quindi, sacrificabili per Hamas, corpi in eccesso per i fautori della
Grande Israele.
https://www.anarresinfo.org/27-09-tramandare-il-fuoco-presentazione-e-dibattito/
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