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(it) Italy, Sicilie Libertaria #451: Guerra e letteratura (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]
Date
Fri, 4 Oct 2024 08:11:50 +0300
Tanto si è scritto sul fatto che la Grande Guerra abbia determinato una
netta cesura tra un prima e un poi. La durata, l'elevato numero di
nazioni e individui coinvolti, l'imponenza del materiale impiegato e
distrutto, la sperimentazione di nuove tecnologie e sistemi bellici, la
mobilitazione degli intellettuali come influencer dell'opinione
pubblica, il logoramento fisico e psicologico in trincea, il massiccio
coinvolgimento della società civile, sia come obiettivo militare che per
alimentare la produzione industriale bellica, le caratteristiche di
guerra totale, di massa e impersonale con la smaterializzazione del
corpo del nemico, le persone divenute cifre utili per le statistiche,
hanno segnato l'inizio di un'Età della Catastrofe, secondo la
definizione di Hobsbawm.
Si trattò di una guerra dei governi contro i popoli, dei ricchi contro i
poveri. Ed i governi e i ricchi si servirono del potere di persuasione
di poeti e intellettuali. Chi provava a descriverne l'orrore veniva
accusato di fomentare il disfattismo.
Man mano che la guerra mostrava il suo vero volto e si andava spegnendo
ogni empito patriottico, gli intellettuali più lucidi prendevano le
distanze dalla facile retorica con cui l'élite di potere dissimulava e
legittimava una strage di popolo. Anche i racconti della guerra di
Pirandello e De Roberto ne offrono una visione antiretorica, antieroica
e demistificante.
In Berecche e la guerra alla critica corrosiva delle utopie
ottocentesche e degli ideali risorgimentali dei "vecchi" si unisce un
pietoso scetticismo sul destino dei più "giovani". L'antica venerazione
del professor Berecche per la disciplina e la cultura tedesca si scontra
con una realtà ben diversa: «Quanti, feriti non raccolti, morenti sulla
neve nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi
a sé con occhi pietosi e vani, e più non sanno vedere la ragione della
ferocia che ha spezzato sul meglio, d'un tratto, la loro giovinezza, i
loro affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno
saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie,
una in ogni anima dei milioni e milioni d'uomini di fronte gli uni agli
altri per uccidersi? Anche adesso, poche righe nei bollettini degli
Stati Maggiori...No: questa non è una grande guerra; sarà un macello
grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove
e la sostiene. Questa è guerra di mercato: guerra di un popolo bestione,
troppo presto cresciuto e troppo faccente e saccente, che ha voluto
aggredire per imporre a tutti la sua merce e, bene armata e azzampata,
la sua saccenteria».
In alcuni racconti di Federico De Roberto pubblicati su varie riviste
tra il 1919 e il 1923, La retata, Il rifugio e La paura, tra i traguardi
più alti della sua opera ma anche del genere, sembrano rivivere le
testimonianze dei diari o delle lettere dal fronte. Lo scrittore
siciliano si servì della consulenza tecnica di soldati e reduci, ai
quali chiedeva di poter visionare anche oggetti bellici. Grazie a un
rigore documentaristico maniacale, un realismo crudo e senza fronzoli e
a un uso del linguaggio e dei dialetti anche in direzione
espressionista, prende corpo la narrazione di una condizione
esistenziale capovolta dove l'eroismo esibisce le medaglie di un
campione della parola (La retata), il tradimento cela un'originaria
vocazione alla umana solidarietà (Il rifugio), paura e coraggio
convergono nell'unico gesto possibile per esprimere una dignitosa
protesta, il suicidio (La paura).
Il rifugio racconta le gesta di un giovane bellimbusto che
sistematicamente disattende gli ordini superiori scansando ogni fatica,
sabotando ogni incarico e affrontando le punizioni inflittegli con
apparente spavalderia, salvo poi ritrovare una grande dignità nel
momento della morte per fucilazione. Nella seconda parte il superiore
incaricato di portare la triste notizia ai parenti, sorpreso da una
tempesta durante il tragitto, trova casuale rifugio nell'accogliente
fattoria della famiglia del disertore. Accudito e sfamato, si trova
involontariamente a indossare gli stessi abiti del ragazzo che ha dovuto
far fucilare. Nel ribaltamento dei ruoli che ne consegue è lui il
frettoloso e imbarazzato fuggitivo davanti alle raccomandazioni della
madre del soldato. L'ufficiale sperimenta il pirandelliano sentimento
del contrario nel doversi riconoscere dalla parte dei carnefici e nel
comprendere le ragioni del disertore, vittima, in realtà, della assurda
disumanità della guerra.
(estratto da un articolo di Sebastiano Pennisi apparso sul n.4 di
Scorci, dicembre 2022)
http://sicilialibertaria.it
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